Voglio i miei semi

Se ci portano via i semi ci rubano anche l’identità, c’è poco da fare, è proprio così. Forse dovremmo innanzitutto chiederci perché la gente di campagna fino a poco tempo fa fosse abituata a tenere i propri semi. La risposta è semplice, perché li avevano ricevuti dai genitori, ed era stato lo stesso anche per loro.
In un contesto rurale, la trasmissione delle sementi lungo l’asse familiare viaggiava di pari passo con il passaggio dei saperi, delle pratiche, delle conoscenze anche più banali. Avere buoni semi, che si dimostrassero produttivi in quel particolare luogo, con quella esposizione, quel clima, quella terra, era fondamentale per provare a garantirsi il sostentamento, e magari anche qualche piccolo guadagno derivato dalle eventuali eccedenze. E tanto per chi coltivava la terra in montagna, dove è tutto più complicato anche solo dalla pendenza dei versanti.
Dalle mie parti, sui monti dietro Genova, l’agricoltura di sessant’anni fa è completamente scomparsa, dissolta, sepolta da rovi e vitalba. I muri delle terrazze, ormai nascosti da una folta vegetazione, sono diventati la tomba di una cultura secolare che non ha prodotto benessere, certo, ma senza dubbio una grande capacità di adattamento a luoghi di per sé difficili al punto da diventare inospitali, soprattutto dovendo trarne sostentamento coltivandoli. E questo spiega perché avere un buon seme era fondamentale almeno quanto conservarlo a dovere. E la ricerca non finiva mai, mica che la gente si accontentasse di quel che aveva, certo che no, tutti cercavano buoni semi, magari dai compaesani, dai vicini, sui mercati e ovviamente anche dai venditori ambulanti. Poi c’erano gli innesti esterni, quelli introdotti da fuori, magari acquisiti dal coniuge a seguito del matrimonio, che la famiglia della moglie dice che un fagiolo così lo devi mettere per forza, che lì ci fa bene sicuro. Oppure semenze recuperate durante l’emigrazione stagionale, nelle regioni confinanti, o magari molto più lontano, non importa, basta che rendano bene. Insomma, intorno al seme ruotava un intero sistema incentrato sulla sussistenza, sulla necessità di garantirsi almeno la speranza di fare un buon raccolto.
Oggi l’orto è diventato un “hobby”, come se mangiare le proprie verdure fosse solo un gesto un po’ snob per chi passa il tempo libero a fare giardinaggio con le palettine colorate e il grembiule griffato. Perché tanto se non ti vengono i pomodori vai al supermercato e ne trovi quanti ne vuoi; e se l’insalata marcisce la vendono già bella pronta nelle buste, non hai neanche più bisogno dell’acqua per lavarla, puoi condirla anche dentro il sacchetto, se preferisci, così sporchi solo la forchetta e basta.
Io voglio poter usare i semi che mi pare, quelli del nonno, quelli degli amici o quelli delle bustine, non importa. E lo voglio perché dentro quei semi c’è il tempo, l’adattamento, la conoscenza. Poi deciderò se cambiarli e passare a quelli moderni o starmene a modo mio, ma devo essere libero di valutare da me.
Fino a qualche anno fa il tema delle sementi brevettate era qualcosa che sembrava rimanere riservato a chi si occupava di una visione “sociale” dell’agricoltura, a chi lottava contro le multinazionali, contri i semi brevettati ecc. Adesso le cose sono diverse, ora il rischio è collettivo – forse lo era già prima – e se non ci sbrighiamo ci rapineranno tutti i semi dei nostri vecchi e la nostra tradizione agricola diventerà sterile, esattamente come una semente ibrida, e avremo perso il senso stesso di quel passaggio culturale.
Oggi è scoppiata la passione per l’orto di città, quello fatto sul balcone o in giardino, per chi lo ha. E tanti sono contenti di aver scoperto questa bella novità, così anche nelle zone più inquinate la gente si mette le cassette sul terrazzino e coltiva da sé qualche pomodoro o le erbe aromatiche, che bello! Che bello proprio niente, chi se ne frega di mangiare sue pomodori puzzolenti di smog o di fare il pesto col basilico allevato fra gli scarichi urbani, basta con queste stupidaggini! E poi le arnie sui tetti, sai, lo fanno anche a Parigi e a New York, e poi raccolgono il miele, pensa! Che se lo mangino il miele inquinato, con le api che vanno di fiore in fiore sugli alberi di acacia dei viali cittadini, pensa che bellezza!
Coltivare anche solo un orto per poi mangiare i propri ortaggi, dovrebbe almeno indurre a riflettere un momento su cosa davvero sia meglio fare. E forse, piuttosto che mangiare ortaggi coltivati in città, sarebbe meglio comprarli da un bravo contadino che adotta lo stesso sistema in campagna, dove almeno non ci sia lo stesso inquinamento.  
Fermiamoci un momento a riflettere, ogni tanto, e cerchiamo di ritrovare un po’ di equilibrio e di buon senso, tanto per non farci imbambolare dagli slogan, dalle mode e dalle chiacchiere insulse, che poi, come ci riprendiamo un istante, realizziamo che ci hanno portato via i semi.    

Commenti

  1. Grazie Sergio per avere riportato l'attenzione sulla trasmissione dei saperi, è un tema purtroppo dimenticato, sempre a caccia dell'ultimo master in qualunque cosa ci si scorda che la terra è diversa luogo per luogo. Ti segnalo la traduzione del comunicato della Via Campesina uscito il 7 maggio che pubblicato su Sorgentedelvino.it. A presto, Barbara

    http://www.sorgentedelvino.it/regolamento-europeo-sulle-sementi-la-commissione-europea-organizza-linquinamento-dei-campi-con-le-sementi-brevettate-dallindustria/

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